Narrano i "diurnali" dell'epoca che la regina aveva fatto costruire un lungo ponte in mare che consentì al Papa, ed al suo seguito, di giungere direttamente dalle loro galere all'Arco del Castello, splendidamente ornato di drappi e stendardi e sotto il quale lo attendeva l'intera corte napoletana. Seduto sul trono, ben visibile a tutti, Clemente VII ricevette il bacio sul piede da parte della Regina, del suo quarto marito Ottone di Brunswick e degli altri membri della famiglia reale, fra i quali Roberto d'Artois, la consorte Giovanna, duchessa di Durazzo, e Margherita di Durazzo (che sarebbe diventata, di lì a poco, sovrana di Napoli).
(Scheda di A. Fresca, Foto tratte dal Quaderno dell'IIC sul Castel dell'Ovo)
Di nobile famiglia di origine amalfitana, trasferitasi Napoli in epoca angioina, la giovane risiedeva con i genitori Nicola e Covella Toraldo, ed i suoi 6 fratelli, nello splendido Palazzo Como, nella zona della Sellaria. Era la vigilia del giorno di San Giovanni del 1447 o forse del 1448, quando la diciottenne, seguendo la tradizione delle nubili napoletane dell'epoca, si avvicinò a re Alfonso, che usciva dal Castelnuovo. Come prescriveva la tradizione, richiese un'offerta per far germogliare i semi d'orzo contenuti nel vaso che recava in mano, ed il maturo re cinquantaquattrenne le donò un intero sacchetto di monete con la sua effigie: lei, prendendo una moneta, gli rispose che le bastava un solo seme
Enea Silvio Piccolomini, futuro Papa Pio II, racconta l'assoluta dedizione del sovrano Aragonese alla giovane Napoletana, e descrive la visita di Lucrezia al Papa Callisto III, da questi ricevuta come una sovrana per ben due ore, probabilmente per chiedergli di sciogliere il vincolo matrimoniale di Alfonso e consentirle di sposarlo. Ma non vi riuscì. Alfonso, e fu quell'attimo a cambiare la loro vita. Fu per lei, Regina senza corona, che il Alfonso non fece mai più ritorno nei suoi possedimenti iberici e non rivide mai più la consorte, la regina Maria di Castiglia. A Torre Ottavia (Torre del Greco), nei possedimenti di lei, a Capua, a Pozzuoli, nel castello di Baia e in quello di Ischia, che le aveva donato, condivise con la giovane aristocratica l'ultimo decennio della sua vita, con grandi benefici sociali e patrimoniali per i sei fratelli di lei, oltre alla nomina ad arcivescovo di Napoli per il cugino Rinaldo Piscicello. Per lei Alfonso fece abbattere, con grandi proteste, il seggio del Popolo, che ostacolava la visuale da palazzo Como. A Castel dell'Ovo il Magnanimo organizzò per lei banchetti e feste, trascorrendo nel palazzo e nei meravigliosi nuovi loggiati affacciati sul mare, realizzati dagli architetti aragonesi, le ore più felici della sua vita.
Ma quando, proprio in questo castello, il re cessò di vivere nel 1458, Lucrezia restò isolata, mal vista dall'erede Ferrante e dalla nuova regina, e preferì auto esiliarsi per il resto della sua vita, morendo a Roma vent'anni dopo.Fra i primi aristocratici romani a scegliere i promontori delle coste campane come luogo di delizie -fra gli altri, Caio Giulio Cesare a Baia, Publio Vedio Pollione a si trasferì nella grande proprietà che includeva il promontorio di Monte Echia e l'isolotto di Megaride. Qui, sui resti dell'antica Palepolis, creò un'immensa villa d'ozio, che nei secoli successivi fu fortificata e denominata Castrum Lucullanum. Vi volle residenze, orti, terrazzamenti, alberi di pesco di ciliegio, importati per la prima volta in Italia dai territori orientali, allevamenti di pesci prelibati e di specie avicole rare, il tutto affacciato sul mare.
E suscitò scalpore la sua decisione di creare una cesura nel tufo dell'altura, che verosimilmente era quella del canalone che separava le pendici della collina del Vomero da Monte Echia: in altre parole, l'allargamento dell'attuale via Chiaia. Questo costosissimo intervento ingegneristico forse gli consentì di far affluire le acque marine, per i suoi allevamenti di pesci, nelle grotte di tufo dove adesso ha sede il cinema Metropolitan.
Ma è il trattamento esclusivo che offriva agli ospiti più illustri, come Cicerone e Pompeo, ad averlo reso universalmente celebre: a certe personalità erano riservati convivi e prelibatezze ispirati ai fasti orientali, di cui potevano godere "in Apollo", cioè in una splendida sala, dedicata al dio della bellezza per antonomasia. E le ultime vestigia della villa di Lucullo, vir excellens, sono ancora al Castel dell'Ovo: ad essa appartenevano le colonne della Chiesa del Salvatore, e, presumibilmente, quelle della Sala delle Colonne.
La prima volta che si incontrarono lo accolse da guerriera, in armatura, alle porte della città: lui le pose sul cimiero una corona ornata di gemme e lei, principessa di Taranto e contessa di Lecce, gli consegnò un catino d’oro con le chiavi della città. Maria d’Enghien aveva accettato di diventare la terza moglie del re Ladislao di Durazzo quando questi aveva cinto Taranto d’assedio. Già madre di quattro figli e vedova di Raimondo del Balzo Orsini, non si era curata della cattiva sorte toccata alle prime due mogli del re: Costanza di Chiaromonte ripudiata, Maria di Cipro morta in circostanze misteriose. Quando un suo fedelissimo le fece notare che sarebbe stato molto rischioso mettersi nelle mani di Ladislao, ella rispose “nun me ne curo, ché se moro, moro regina”. Ma il re non la trattò mai da sovrana, e nella reggia di Castelnuovo lasciava alloggiare anche due delle sue amanti, la Contessella e Margherita di Marzano, mentre la favorita, Maria Guindazzo, sembra che risiedesse a Castel dell’Ovo. E fu qui che, dopo la morte di Ladislao nel 1414, la sorella di lui Giovanna II, si preoccupò di far recludere Maria d’Enghien per escluderla dal trono. Ma questa sopravvisse anche a Giovanna e, tornata nei suoi feudi, poté assistere all’ascesa dei suoi discendenti: suo figlio, il Principe di Taranto Giovanni Antonio del Balzo Orsini, fu Gran Connestabile del Regno di Napoli per volere del nuovo re Alfonso D’Aragona, mentre sua nipote Isabella di Chiaromonte, figlia di sua figlia Caterina, andò in sposa a Ferrante, divenendo a sua volta sovrana e madre di re.
(Scheda e foto di A. Fresca)
Arrivò dal mare, come la sirena Partenope, o forse come la principessa calcidese omonima di quest'ultima, o come altre sante, come Restituta o Marta, giunte sulle sponde del Mediterraneo occidentale su piccole imbarcazioni dalle coste africane o vicinorientali. Riproponendo in chiave bizantina le vicende dell'antica figura mitologica, la principessa Patrizia approda a causa di una tempesta sull'isolotto di Megaride e vi resta, ma con un ruolo completamente nuovo, non più insidiosa tentatrice legata al mondo degli inferi, ma cristiana e caritatevole benefattrice. Discendente dall'imperatore Costantino e nata a Costantinopoli nel VII secolo, giunge a Napoli dopo aver ottenuto l'autorizzazione del Papa a fondare un ordine monastico, contravvenendo alla volontà della sua famiglia aristocratica e donando le sue ricchezze ai bisognosi. E sarebbe sbarcata proprio qui, ai piedi dell'antico Castrum Lucullanum dove già i padri Basiliani, rifugiati dalla Pannonia, avevano creato un cenobio. In questi antri scavati nel tufo, ancora oggi denominati Romitori di Santa Patrizia, visse fino alla morte prematura, sopravvenuta a soli 21 anni: fu sepolta sulla collina di Caponapoli, nel monastero intitolato ai Santi Nicandro e Marciano, che da lei prese il nome di Monastero di Santa Patrizia, e che oggi ospita il Dipartimento e lo storico Museo di Anatomia Umana dell'università Luigi Vanvitelli. Le spoglie della Santa furono poi traslate nel 1864 nella chiesa di San Gregorio Armeno, dove, ogni martedì ed il 25 agosto, avviene il prodigio della liquefazione del sangue, scaturito da un dente e raccolto in un'ampolla molto tempo dopo la sua morte. La Santa è compatrona della città di Napoli dal 1625.
(Scheda e foto di A. Fresca)
Con l'avvento del viceregno spagnolo, il Castel dell'Ovo non fu più dimora reale, ma un forte e luogo di prigionia.
Nelle foto, le cosiddette Carceri della Regina Giovanna.
(Scheda e foto di A. Fresca)
"Donna fra tutte le altre elettissima di religione, di bellezza, di lettere e di nobiltà" (Giovio)
"Donna saggia, leggiadra, anzi divina" (Gambara)
"Onore del suo sesso e del nostro secolo" (Bembo)
Era il 27 dicembre 1509 quando Vittoria Colonna e Fernando Francesco D'Avalos si sposarono nella cattedrale dell'Assunta, nel comprensorio del castello di Ischia. Discendenti da due grandi famiglie da sempre fedeli alla corona spagnola, erano stati promessi sin da bambini per volere di Ferrante II d'Aragona. Il suo successore Federico I, ultimo re Aragonese di Napoli, aveva lasciato a Costanza D'Avalos, principessa di Francavilla, il comando del castello di Ischia, ultimo baluardo di resistenza alla conquista francese.
Sconvolta dal dolore, dispose il trasferimento delle sue spoglie nella chiesa di San Domenico Maggiore, nel luogo dove riposano tuttora i più alti dignitari della Corte Aragonese. Forse fu l'imperatore a donare alla famiglia d'Avalos, per esprimere la sua gratitudine, i sette magnifici arazzi fiamminghi con le scene della battaglia di Pavia, straordinarie testimonianze storiche che si possono ammirare ancora oggi al Museo di Capodimonte. Principessa guerriera, raffinata letterata, Costanza D'Avalos educò insieme i due fanciulli: Ferrante, figlio del fratello defunto Alfonso, e nato proprio in quel castello, e Vittoria. Figlia del grande condottiero Fabrizio Colonna, il suo destino era chiaro: figlia di un condottiero, amico fidato del re aragonese, sorella di un futuro condottiero, Ascanio Colonna, sposa di un condottiero. Una nobildonna del suo lignaggio doveva restare comprimaria, in attesa del marito. Ma la sua storia prese una piega diversa. Dopo la battaglia cruciale di Pavia nel 1525, la straordinaria battaglia che determinò la vittoria definitiva della Spagna sui Francesi in cui fu fatto prigioniero persino Francesco I, Ferrante si ammalò così gravemente di tisi da morirne di lì a poco, a Milano. Vittoria, legatissima al marito, non riuscì a raggiungerlo in tempo e apprese della notizia quando era ancora solo a Viterbo.
Sola e priva di discendenza, a trentacinque anni Vittoria vide cambiare la sua esistenza, esprimendo la vena poetica alla quale fino a quel momento non aveva dato ascolto, perché il dolore trovava uno sbocco naturale nella composizione dei sonetti petrarcheschi che l'avrebbero resa celebre:
"Dal vivo fonte del mio pianto eterno
con maggior vena largo rivo insorge
quando lieta stagion d'intorno scorge l'alma,
che dentro ha un lacrimoso verno;
quando più luminoso il ciel discerno
ricca la terra, e adorno il mondo porge
le sue vaghezze, il cor miser s'accorge che 'l bel di fuor raddoppia il duol interno."
Ammirata dai più grandi letterati dell'epoca fra cui Jacopo Sannazaro, Paolo Giovio, Bernardo Tasso, Baldassarre Castiglione, Pietro Bembo, Galeazzo di Tarsi, Pietro Aretino, Ludovico Ariosto, mise a frutto gli insegnamenti che Costanza D'Avalos le aveva trasmesso. Donna rinascimentale a tutto tondo, impegnata costantemente in questioni politiche che riguardavano la sua famiglia e i rapporti con il papato, perorando con convinzione e coraggio una riforma della chiesa –e rischiando l'accusa di eresia-, viaggiando spesso divisa fra impegni sociali e familiari, ritiri spirituali in convento e l'amministrazione dei vari feudi ereditati dal marito. Poi, dopo il 1536, incontrò Michelangelo ("Unico maestro Michelangelo et mio singularissimo amico"), con il quale nacque un rapporto specialissimo di riflessioni su fede e filosofia, scambi di composizioni poetiche e disquisizioni sull'arte, forse amore platonico, ma sicuramente un rapporto di rara intesa.
E forse dobbiamo ravvisare un suo ritratto -oltre a quelli che le fecero il Pontorno, il Veronese e Sebastiano del Piombo-, fra le figure dei beati che Michelangelo dipinse nel suo sublime Giudizio Universale della Cappella Sistina.
(Scheda e foto di A. Fresca)
Nel luogo dove fu celebrata, probabilmente dai primi coloni Rodii, la sirena Partenope e, in epoca del ducato bizantino, Santa Patrizia, nei secoli scorsi avveniva una festa in onore della santa siracusana Lucia, anch'ella proveniente dal mare, vergine e martire. Venerata dai monaci superstiti del Castrum Lucullanum nella chiesa omonima un tempo affacciata sul mare, alla santa era dedicata una processione: il suo busto argenteo -oggi custodito nel duomo di Napoli- il 13 dicembre, il giorno ritenuto dalla tradizione popolare quello con il minor numero di ore di luce dell'anno, era portato sulle terrazze sommitali del castello, da lì fatto affacciare sul golfo, come a benedire la città.
Il percorso proseguiva salendo sul Monte Echia, il promontorio vulcanico sede dell'antica Palepolis, per poi essere esposto nella chiesa. La processione, così come la festa odierna, era caratterizzata dall'esplosione di fuochi d'artificio dedicati alla divinità portatrice di luce, probabile reinterpretazione delle antiche lampadodromie, le gare di corsa dei portatori di fiaccole in onore della sirena Partenope, incentivate nel V secolo a.C., quando fu fondata Neapolis verosimilmente ad opera degli stessi siracusani, che erano stati alleati dei cumani contro gli etruschi nella battaglia cruciale del 474 a.C..
La Santa siracusana, che nella sua città di origine si era forse sovrapposta alla figura dell'Artemide portatrice di luce, qui sull'isolotto di Megaride e sull'altura dell'antica Palepoli, ricalca il ruolo della mitica fondatrice della città e incamera nel culto cristiano-bizantino usanze e miti pagani.
(Scheda e foto di A. Fresca)